Il giorno che sparì la a con l’acca

Il giorno che sparì la a con l'acca

Faccio l’autista di ascensori da oramai tre anni. Mi piace, ho responsabilità non eccessive e soprattutto lavoro da solo. Solo. Nessuno accanto che ti esamina, nessuno con cui parlare per forza: per educazione di colleganza o per la noia che ti vomita accanto, così ti volti a parlare per non guardare. Io porto gli ascensori, comodo nella mia posizione appena sopra la cabina: spingo le leve per andare fino all’ultimo piano, il freno idraulico per le gli arresti ai piani e la barra per scendere a terra. Semplice, nulla di complicato. Guardo in alto, oltre il vetro della finestra circolare, mi getto verso il traguardo, salendo in alto, verso l’unico punto di luce sopra di me. Mi eccita ogni volta, il puntino a mala pena illuminato che diventa sempre più intenso, e io a raggiungerlo prima il buoi mi riacchiappi. È stupido, vero, verissimo, ma è il mio lavoro e voglio renderlo avventuroso, eccitante, miracoloso. Voglio che il mio viso sia sempre raggiante e illuminato dal desiderio di uscire più in fretta che posso dalla mia cameretta, e ancora più ardente quando incontro i passanti che quasi ostacolano il mio cammino, la mattina; devono deflagrare di invidia come punti neri sulla pelle di un nato appena ieri, graffiarsi la testa fino a sanguinare, mille pidocchi del sospetto che rosicchiano in silenzio la loro cute. Mi piace il mio lavoro, tutti devono saperlo, nessuno deve osare pensare il contrario. Devono raccontarlo agli amici, al parente lontano, al prete. «L’autista dell’ascensore del palazzo che s’incontra poco dopo il dosso del Patimento è proprio felice del suo lavoro. Quando salgo su quell’ascensore mi sento tranquillo e sicuro, il viaggio e comodo e riposante. Non penso a nulla, pronuncio solo il numero del piano e mi affido a lui. È proprio un brava persona l’autista dell’ascensore del palazzo che s’incontra poco dopo il dosso del Patimento…». Ecco, questo devono dire, questo devono pensare, un coro di lusinghe voglio, un canto invidioso, bavoso. Anche una nenia sottovoce mi basterebbe, un soffio rispettoso che mi raggiunga ovunque. Anche perché altro di me non esiste, altro di me non appare. Altro di me all’infuori di me non c’è.

E poi di cosa mi lamento? Poteva andare meglio è vero, magari finivo a fare il pilota di palloni aerostatici, quelli che collegano il basso con l’alto, zeppi di prenotazioni che uno neppure ci prova, nemmeno ci pensa ad usufruire del servizio, tanto chi trova un sedile, uno strapuntino, un posto in piedi? Sono talmente desiderati che hanno smesso di farli salire. Allora sono tutti sopra con il loro carico completo di carne e ossa, dondolanti al vento da chissà quanto tempo, e noi neppure solleviamo gli occhi al cielo per immaginare le storie che si sono formate lassù, le passioni e le faide, gli amori e i tradimenti. Chissà se hanno ancora la forza parlare, di piangere o ridere. Ma i piloti di palloni aerostatici, almeno loro, sono tornati in basso? Mormorano che un servizio di intervento più che pronto è riuscito a portarli sotto. Ma io non ci credo. Anche perché un pilota palloni aerostatici viveva accanto a me qualche tempo fa, non vedo più le scatole di sardine e aringhe sulla sua porta. Ora, se uno è tornato sotto avrà un po’ di fame, un languore da precipitazione dal sopra? Anch’io quanto scendo con il mio ascensore mi prende una fitta allo stomaco, come un dito che scava l’orifizio del cardias. Poi smette. Risalgo e smette. Forse dovrei passare al controllo medicale, una visita veloce; ma compilare i registri delle malattie mi annoia, mi passa subito la voglia di stare meglio, e allora mi tengo alla larga dai registri, li compilo giusto quando non ne posso fare a meno. Una volta ogni due anni. E’ obbligatorio. L’unica cosa obbligatoria che è rimasta. Dal giorno che è sparita la a con l’acca è l’unica cosa che si deve fare. Spesso non ricordo neppure più quando è successo, talmente sono sovraffollati i ricordi. La mia testa da allora è come una zuppiera, piena di tanto, stracolma di tutto, ma vuota e leggera quando provo a prenderla in mano. Comunque sia la a con l’acca un giorno sparì. C’è chi dice che si volatilizzo come in un sogno cartesiano, chi pensa che colpa sia di un decreto legge ma ritirato e chi invece accusa silenziosamente un intervento divino. Più realisticamente fu un attentato di un gruppo clandestino, talmente clandestino che la loro azione non poteva essere rivendicata, proprio perché illegittimo, nascosto, irregolare. Almeno questa è la mia tesi. E qui viene il problema. Con l’improvvisa sparizione della a con l’acca, il governo e l’assemblea permanente decisero che bisognava abolire conseguentemente anche il verbo avere. In quel modo era risolta la questione, visto che con l’abolizione del verbo diventavano inutili le desinenze. Ma quella non saggissima cosa portò conseguenze inaspettate. Talmente imprevedibili che l’assemblea permanente si sciolse. Il governo, furbescamente pensano taluni, con senso di responsabilità tutti gli altri, si trasformò in quella cosa che esiste ancora oggi. E quella cosa abolì la proprietà, ma non in senso lato, in modo più profondo. Nulla può essere posseduto perché è scomparso il modo per comunicarlo. Sembra semplice e canagliesco, ma non lo è. Io ad esempio, che vengo da una generazione oramai in via di estinzione, conosco il verbo avere, posso almeno pensarlo e divertirmi a strutturare frasi straordinariamente proibite. I nuovi nati invece non sanno neppure cosa sia. Non hanno. Non posseggono le cose materiali e non godono di quelle spirituali. Non hanno e basta. Non possiedono neppure i desideri perché non conosco la possibilità d’immaginarli, semplicemente. Sono, siamo, una grande massa di individui che hanno rinunciato ad esserlo, perché non possono saperlo. Viviamo non per noi stessi ma per il tutto, che contiene anche noi stessi, ma non abbiamo gli strumenti linguistici per intravederci. Mostruoso? No! semplicemente umano, quindi animale. Non si possiede quindi non si desidera. E non desiderando non esiste il dolore. Sopra, sotto, là, e qui. Quattro semplice direzioni dell’anima. Io sono felice. Perché ancora ricordo. Loro sono felici. Perché non ricordano.
Ora accomodati e dimmi dove scendi. È scritto sotto le tue unghie.

Roberto Giannotti