Prima Carlo. Scomparso. Inutile cercarlo. Non risponde al telefono, squilla nel silenzio del padiglione auricolare. Quello di casa perennemente occupato. Le persiane delle finestre serrate, come un agosto qualsiasi. La sua macchina sembra soffocare sotto la polvere, quella grassa e rotonda che copre i vetri come un chador troppo usato; sembra attendere le dita grossolane che si agitano per scrivere inutilità tipo lavami! Ma non mi preoccupo, mai. Anzi, al dire il vero l’apprensione per la sua assenza mi è indifferente. Solo la pigrissima abitudine alla sua presenza al bancone del bar mi percuote leggermente l’interesse verso il prossimo. Ma per poco. Faccio finta, ecco, di essere preoccupato. Sono bravo a far finta, a rendermi partecipe agli eventi della quotidianità, uno sforzo che pari quasi quello del ciclista della domenica che si aggrappa all’ultima salita della giornata. Sono un pedalatore dell’indifferenza, sudo noia umida, sputo stanchezza molesta. Comunque Carlo non si trova più. Neppure Fernando se è per questo. E Giannino dietro di loro. Cancellati con la gomma pane, come i pupazzetti che venivano sgorbietti nelle aule d’asilo. Non sono in viaggio, odiano arrivare anche al confine del quartiere. Non sono morti, per il semplice fatto che la puzza si sarebbe già svegliata. Escludo la mummificazione per prodigi mistici, visto che la bestemmia è la saliva che lubrifica i loro pensieri, come la Luan aiuta le dilatazioni più inverosimili. Il baretto dopo quindici giorni è peggio del cervello di una sciampista in ovulazione: mille ipotesi che contraddicono e rafforzano se stesse. Poi mi viene in mente Ivano. Assisto alla mia illuminazione, da lontano però, come un figurante a cui hanno appena tagliato l’unica scena girata. Ivano, quando era Ivano, era un ladro rispettato da tutto il quartiere. Ora è ancora Ivano, ma gli è concesso di usare quel nome solo in virtù delle bellezze della moglie: la moglie di Ivano. I più però lo chiamano il marito della moglie di Ivano. Grammatiche romanesche. E allora sono con Ivano di fronte alla porta della casa di Carlo. Niente puzza mortifera. Anzi, il sor Cesare, il vecchio che attende la morte nell’appartamento di sotto, sostiene che sente la tazza scaricare. Quindi nell’appartamento di Carlo si defeca. Indizio degno di Scerbanenco. Ivano però è invecchiato, e io guardandolo armeggiare con gli spadini, penso al meraviglioso seno della moglie. La stima per questo povero vecchio ladro è nuovamente in erezione. Tutto è in erezione quando la serratura cede. E per poco non cedo anch’io. La puzza invereconda di carne frollata mi sodomizza il naso. Barcollo. Non respiro. Mi sembra di tuffarmi dentro il dormitorio della Caritas, affondo dentro afrori di sudori impazziti, calzari consunti, bocche che espellono pezzi d’ano macerato. E sono lì: Carlo, Fernando e Giannino. Vomitati sul divano, in osceni tentativi di pigiama. Sono assiepati in una forma contorta di carne umana, avvinghiati contro se stessi. Carlo mi guarda e sussurra “…siamo i dormienti…”. Poi inizia a cantilenare parole ammollate dentro una zuppa d’alitosi andata a male.
“siamo i dormienti, e dormiamo per abbattere definitivamente tutti i mezzi di produzione. Dormiamo per cancellare ogni traccia di terziario, per mettere in ginocchio la produzione ipercapitalistica della città. Dormiamo per abbattere tutti i governi, per far crepare di fame la razza dei politici. Dormiamo per non produrre più nulla, merci e servizi. Dormiamo perché se il piombo non ha funzionato è perché è troppo dolce e indolore. Se tutti ci mutiamo in dormienti, in zombie silenti ma coscienti, il capitale, il potere economico, non avrà più la forza di sopravvivere”.
Più o meno questo disse Ivano. Ora non ricordo con precisione. Il sonno offusca la mia sete di rivoluzione.