Abbacchi e polli: ovvero del futuro della passata esistenza

 Abbacchi e polli

 

Abbacchi e polli. Dovevo aprire uno spazioso spaccio di abbacchi con relativi polli di contorno. Magari sotto casa, così da non affaticarmi troppo, perché è noto a tutti che arrivare stanchi sul posto di lavoro porta sfortuna. Non subito, dopo qualche tempo, la malinconica iattura è pigra anche lei, è risaputo, noto a tutti; almeno al lettore medio di quella bibbia inconsolabile che è Il Giornale dei Misteri, rifugio del sognatore affetto da insonnia cronica. Ma non è il mio caso, posso dormire anche 18 ore non consecutive, ho bisogno di piccole pause tra un sonnellino e l’altro. Dormire è una vera arte, e ogni arte stanca. Si scriveva poco sopra del mio desiderio di imbarcarmi in una redditizia attività nel campo degli alimenti commestibile dopo una attenta cottura, magari anche al vapore: commercio di abbacchi, piccoli ovini da scotennare poco dopo la nascita, così tanto per ricordare chi comanda su questa terra, e pollame vario, comprensivo di quaglie. Lo immagino pieno, zeppo, stracolmo di corpi che penzolano da ogni dove, l’apoteosi dell’abbondanza, con l’odore di muscolo fresco, freschissimo, che invade ogni pertugio del corpo umano. E io lì, bello come un montone abruzzese, che mi pavoneggio al mondo intero, con il mio grembiule bianco candido come il cuore delle pecorelle che prima o poi verranno a farmi visita. Abbacchi e polli. Costatine, braciole, petti, arrosti, sovracosce, sottocosce, ascelle e anche linguette di galletti affumicati. Poi, siccome non sono mai domo, la sera gestire una bella taverna, anch’essa non troppo lontana, che riversa sui commensali piatti di sugo con relative rosette e frittate, d’ogni tipo e colore, con una predilezione per quelle con tanto rosso d’uovo. Ma quelle costano di più.

Se non ti accontenti affari tuoi. Non è che adesso vieni qui e alzi la voce. Difficile per uno come te alzare la voce visto che sei muto come un bradipo; e non mi fai paura tutto rosso, con la lingua di fuori gonfia di saliva, le orbite degli occhi che pulsano come ferite marce, le vene del collo che si riempiono di parole umiliate dalla tua inopportuna invalidità. Non ti accontenti? Cazzi tuoi. Io non sono il bidè della tua anima. E non sono neppure la matrice di tutto quello che hai perso. Non ti accontenti? Affari tuoi. Io non parlo con chi ascolta con le labbra. Comunico esclusivamente con chi sente con il cuore. Come dici?

Poi mi fidanzo con la cassiera. Un classico del commercio. Ma deve avere delle belle ascelle, profumate di primavera, da succhiare e guardare, guardare e succhiare. Le ascelle sono importanti, racchiudono il sapore della vita, il gusto della morte, il retrogusto della passione, quella più incontrollabile e misteriosa. Una marea selvatica mi sale nel cervello, l’amaro invece mi finisce dritto al cuore. La lingua si colora di lei, mentre io finisco dentro una palude salmastra, con i pesci piatti, ma piatti più di ogni altra cosa piatta, piatti quasi a sparire, che prendono a schiaffi i miei occhi, piatti anch’essi, più di ogni altra cosa piatta. Assaggio ascella da tutta la vita, ho un palato fine per quella parte del corpo, un gourmet da stelle Michelin, un palato sviluppatissimo. Posso scoprire ogni cosa di una donna dalle ascelle, ogni segreto, un pulsione, ogni desiderio. Le ascelle sono la porta dell’anima.

Ascolta, ma non dire nulla fino alla fine. Non cominciare con i tuoi sì e i tuoi ma. Ascolta e basta. Poi attacca direttamente il telefono, anzi buttalo via. Ti ho lasciato i soldi dentro la cassetta delle lettere dell’amministratore, quello del palazzo all’angolo, quello che non viene mai, anzi non sappiamo più se sia vivo o morto. Ascolta allora, in silenzio, mettiti seduta e trattieni il respiro. Se ti sento respirare non riesco a parlare, mi ricordo immediatamente di quanto vomitavi il tuo respiro su di me, di quando ti rotolavi dentro il mio cuore e poi prendevi la mia lingua e cominciavi a dipingere sul tuo seno tutto quelle parole che non capivo, che non conoscevo. Ma erano bellissime, e allora cominciavamo a parlare quella lingua meravigliosa, dritta come lame di coltello, tonda come la pancia di quando portavi tua figlia a scoprire il mondo. Se respiri è la fine. Sento il ruscello che affogava ogni mia forza di volontà, ed ero un manichino sopra una barchetta in preda al demonio della tempesta, una marionetta retta solo dai file dei tuoi umori, che combatteva contro l’amore che non ti ho mai detto. Non parlare, non respirare. Baciami e ascolta.

In ogni negozi che si rispetti serve l’insegna. I negozi senza non sono negozi ma stanze con le cose dentro. Compreresti mai qualcosa dentro una stanza? No, vero? Quindi l’insegna è importante. Abbacchi e polli. Semplice, diretta, immediata. Però scritta in tutte le lingue del mondo, una insegna enorme, deve riempire tutta la facciata del palazzo, murare tutte le finestre che tanto non servono a nulla, la gente non si affaccia più, temono di vedere il mondo, la vita che scorre sotto di loro, il sangue della sofferenza che tanto somiglia a quel liquido incolore che pisciano sempre più raramente. Anzi, voglio fare una insegna che spinge il cielo fino a toccare il sole, serve spazio per scrivere in tutte le lingue del mondo. Voglio scrivere anche con gli alfabeti che non esistono più, con quelle dei pianeti lontani e con quelle dei felini. Voglio arrivare fino a toccare i piedi di Dio, voglio scrivere con la lingua degli angeli e pure con quella del Padreterno. Abbacchi e polli. L’insegna deve essere semplice e diretta. Come un buco nel cuore.

Aspetto un bambino, anzi tre. Sono incinta. È sicuro, ho fatto il test e pure i tarocchi. A mia madre ancora non l’ho detto, povera donna sai che colpo. Un figlio maschio incinta di tre nipoti. Non sono pazzo, sono gravido davvero. Sono cose che accadono, rare ma accadono. L’ho detto però a mio padre che ora non mi parla più. Non è che prima parlava tanto, ma adesso è certo che rimarrà muto tutta la vita. I bambini si stanno sviluppando dietro la schiena, poco sopra i lombi sacrali. E lì che maturano i figli dei maschi. Si nutrono dal midollo spinale e succhiano tutti i miei pensieri. Per questo devo pensare molto in questo periodo e le emicranie non mi lasciano dormire. Quando saranno pronti a nascere non partorirò. I maschi non possono partorire. Allora li porterò per tutta la vita dentro di me e loro diventeranno grandi. Per questo ho rubato tutti i libri del condomino, devo pensare milioni di storie per nutrirli bene, farli crescere e esaudire tutti i loro desideri. Sono tre femmine, ho fatto la lastra. Il dottore non voleva crederci e insisteva per una ecografia. Ma la lastra basta, si vedono? E quindi niente ecografia, poi si spaventano, si agitano e comincio a vomitare tutta quella melassa piena di terra, linfa appiccicosa che mi rovina i denti. La madre vive nei boschi, sotto la montagna. E un albero. Bellissimo. Un albero femmina. Ho fatto un buco nella corteccia con le mani e ho cominciato a scoparla, per ore, per giorni, per settimane. Più la scopavo e più il cazzo mi diventava enorme, duro come legno, la cappella rovente bruciava il midollo, fino ad arrivare alla radice. Siamo venuti insieme, lei urlava tra le foglie, io mordevo le radici. Il mio seme non finiva mai, una cascata di melma colorata. Lei schizzava dai rami, pece rossa e cristalli di sale. Ho dormito per una eternità, poi. Ho mangiato tutto il mio albero femmina, a bocconi grandi come gli abbracci degli amanti. Volevo tenerla con me per sempre e lei mi ha donato tre figlie. Sono padre e madre. Sono felice ma non riesco più a ricordarmi perché.

L’altra mattina ho chiuso il negozio. Gli abbacchi non si vendono più. Neppure i polli. La gente oramai mangia solo semi di cocco. Una moda. Passeggera senz’altro, ma non si vendono più ovini e volatili. Ho venduto tutta la merce ad un gelataio di Cortina. Lui ha grandi idee, dice che presto tutti smetteranno di mangiare semi di cocco. Così congela tutto il cibo che trova. Volevo andare con lui ma odia gli avvoltoi, e io ho un avvoltoio come animale da compagnia. Gli avvoltoi sono affettuosi e premurosi. Poi mi piacciono perché quando hanno paura vomitano. Il mio oramai rigurgita solo un pochino.

 

 

Roberto Giannotti