Lettera d’amore d’inizio secolo (con dovizia di attenzione verso sostanza e forma incontinente)

Les femmes de l'eau

Io ti odio. Non ti disprezzo. Ti odio. Il disprezzo ha un valore, un prezzo, una sostanziale consistenza. L’odio invece è informe, molle come la carne buttata sul bancone della vita – puoi infilarci le dita e strappare la polpa, strappare le fibre e schiacciarle sotto il peso del corpo – e rimestare la polpa, il grasso, con quelle strisce gonfie e gialle, chissà poi perché – renderla quasi liquida, e dissetarmi con quel succo maledetto e velenoso. Poi vomito. Sempre. Con costanza, sui miei piedi, nudi e zeppi di funghi, con le vesciche di sangue pesto che succhiano avide i miei acidi appena colti. Ho tolto i mobili, suppellettili e squarciato i muri per togliere il colore alle pareti. Queste stanze devono somigliarmi, io grigio senza fortuna, come la malta che tiene uniti i mattoni dell’esistenza, grigio come il cemento maledetto che sostiene l’idea stessa del mio rifugio. Perso, smarrito in me, senza la dignità che dovrebbe appartenere agli uomini, senza neppure più il dolore che incatenava il ricordo tuo: a me. Sono in piedi, nudo, tutto il giorno e la notte, a fissare i detriti dell’appartenenza a questa società, la polvere di calce che morde i polmoni, senza sosta, fino a renderli invisibili alla mia percezione. Ti odio. Urlo e corro su quello che una volta era pozzolana, urlo e corro sul veleno che mi hai fatti inghiottire, con il sangue che si fa strada dal mio culo, il tumore che mi hai infilato dentro a forza, spingendo senza sosta con le menzogne del tuo amore, con le false promesse delle tue preghiere, con i baci roventi vuoti d’ogni passione. E ti odio. Chiuso come un monatto senza gambe, senza braccia, un moncone che striscia sugli umori rinsecchiti della tua vagina, putrida come la gola della iena più bastarda, quella che copula solo con la vendetta e figlia cuccioli morti per la cena del Dio dei vermi. Ecco, io ti odio. Ho chiuso ogni finestra, ogni porta, ogni fessura, con la sabbia marcia del fiume disgraziato, quello che una volta era biondo, ma da sempre è stato giallo, dorato non per i riflessi di Elio ma per i sedimenti catarrosi che i morti hanno versato dall’inizio dei secoli. Al buio ti odio. Ti odio adesso che non respiro. Ti odierò più tardi quando la morte si accoppierà con me. E ti odierò per sempre, sempre più forte, anche quando i vermi carezzeranno le viscere, anche quando l’anima squarcerà l’inferno. Ti odio. E non avrò pace. Per scelta. La mia scelta. Quella di amarti per tutta la mia esistenza.

Roberto Giannotti